Cari amici della grande ?famiglia teatrale calabrese?, come la definisce Cauteruccio, nonostante il mio fitto calendario di eventi estivi, sto cercando di seguire il vostro dibattito sul MGTF, sulla nomina di Albertazzi e la cultura in generale. Quello che leggo è tutto condivisibile, dalla farsa del colloquio, alla contestazione puntuale sulla corretta applicazione dei termini del bando, dai limiti oggettivi dell?operatività del celebre Maestro, alla sua effettiva conoscenza del territorio calabrese, passando per il mancato reale coinvolgimento di chi, in Calabria, il teatro lo fa, tra tanti sacrifici. Mi permetto di esprimere qualche riflessione che, dalla mia posizione di estraneità alla vostra famiglia di ?teatranti?, forse può aggiungere nuovi spunti. Intervengo, non tanto per essere arrivato al secondo posto nell?ormai celeberrimo bando, proprio alle spalle del Maestro, ma per essermi da sempre battuto per conquiste di carattere culturale in questa regione, già da quando, nel ?93, mi vidi negare da un?ordinanza del questore di Catanzaro il permesso per effettuare un concerto di Sting per motivi di ?inquinamento atmosferico e possibile scontro fisico tra i partecipanti? (leggasi come è scritto), nell?indifferenza della politica regionale. E mi fermo a questo episodio. Da allora, un po? di anni sono passati, la mentalità generale è cresciuta, ma la politica, che nel frattempo ha compreso le valenze e i ?vantaggi? nell?occuparsi di spettacolo e cultura, finisce talvolta per alterare le regole del gioco, in alcuni casi semplicemente per ingenuità o ignoranza, in altri per interessi e clientela. Parto dalla riflessione più banale: i criteri di un bando dovrebbero essere così chiari e inequivocabili da consentire, attraverso l?attribuzione dei vari punteggi, di compiere la selezione in modo trasparente e soggettivamente indiscutibile. Se si sta ancora discutendo, vuol dire che qualcosa non è andato per il verso giusto. Regolamenti e criteri a parte, bisogna capire cosa si voleva davvero: un grande testimonial, un progetto che si occupasse del teatro calabrese o un grande festival?
Nel 2011, dirigere e organizzare un grande evento estivo di genere, di caratura e risonanza nazionali o, addirittura, internazionali, come si vorrebbe far diventare questo festival, necessita, secondo me, di qualcosa in più della rivendicazione di un?appartenenza. Anni fa mi diedero da organizzare un mondiale di biliardo, sport-gioco che ignoravo completamente. Gli esperti dissero che fu una delle edizioni più riuscite e meglio organizzate. Saper organizzare è anche studiare, imparare, capire, intuire, affidarsi alla propria sensibilità, al proprio bagaglio culturale, alla rigorosa disciplina o, se c?è spazio, alla creatività. Una manifestazione con decine di siti, decine di repliche, milioni di euro di investimento, centinaia tra attori, tecnici, operai e forniture, ecc., come il MGTF, deve innanzitutto rispondere a regole artistico-organizzative di livello assoluto, partendo dallo studio e dall?analisi del genere e del contesto in cui si interviene, da un confronto con la realtà locale operante in quell?ambito, alla verifica dei siti, del territorio, dei bacini e target di pubblico. A tutto ciò, inquadrato il contesto artistico e ?ambientale?, valutato il possibile impatto sul pubblico ed effettuate le scelte di ogni natura, vanno aggiunte la giusta strategia di comunicazione, una corretta promozione, una perfetta organizzazione. L?aspetto anche creativo, legato alle scelte artistiche e alla confezione finale del progetto, è la prima condizione affinché si crei l?evento, ma non è la sola. Il giusto coinvolgimento e soddisfacimento della realtà operante sul territorio è un?altra condizione imprescindibile. Ciò non deve significare, obbligatoriamente, la partecipazione di chiunque ritenga di dover essere coinvolto, ma impone al direttore-organizzatore di saper spiegare le sue scelte e, comunque, di bilanciare correttamente contenuti e programma, promuovendo le ?tipicità? meritevoli. Oggi, un grande evento estivo, come insegnano le principali manifestazioni italiane di ogni genere, si apre a contaminazioni, a ?espansioni?, a ?letture? e connotazioni originali, a ?compromessi? artistici che, senza inficiare la traccia del progetto, si rendono capaci di esaltarne e amplificarne la diffusione attraverso i media, i pareri della critica, il passaparola della gente. In Umbria Jazz oggi c?è anche il pop. A Taormina si spazia finanche nel rock. La funzione del direttore artistico non si può limitare al concetto di appartenenza a un preciso genere e il suo ruolo non può essere solo quello di indicare dieci titoli da mettere in scena, ma quello di dare specificità e identità a un progetto, collocandolo e rendendolo riconoscibile nel quadro delle principali manifestazioni del Paese. Oggi, secondo me, è necessario che questa figura esca dall?astrazione di un reale o finto intellettualismo o di stereotipati e anacronistici luoghi comuni, mostrando, innanzitutto, capacità di gestione di manifestazioni complesse, dalla fase progettuale a quella esecutiva. Un evento di questo tipo, dimensione e ambizione, non può restare nelle nicchie di poche famiglie, ma deve poter essere patrimonio del prodotto culturale di un?intera regione, innanzitutto facendosi conoscere e apprezzare da una vasta platea, da quelle delle sale, agli utenti di ogni tipo di media. Oggi, le sale semideserte, il disagio dei teatranti della regione, lo scarso interesse della gente e quello pressoché insussistente di testate locali e nazionali, che al massimo dedicano qualche trafiletto nella paginetta locale, magari dietro pressioni e insistenze degli addetti ai lavori, dicono chiaramente che Albertazzi non ha fatto il miracolo, non ha mediato con tutte le esigenze del territorio, non ha stimolato il pubblico e la stampa che conta. Si è avuta conferma che grandi attori di questo calibro, per non citare l?età, sono più utili come protagonisti, testimonial, monumenti da erigere all?ingresso dei teatri, affermando chiaramente che la direzione di un grande evento necessita, oltre che di esperienza, affidabilità, capacità e creatività, anche di umiltà, lavoro, dinamismo, grandi sacrifici e capacità di ascolto. I codazzi di collaboratori esaltati ed estasiati dal Maestro, o peggio, apprendisti o tirocinanti, quasi stagisti, non possono sostituirsi a chi non c?è e dovrebbe esserci. Ogni mestiere ha le sue regole e, ancora una volta, in Calabria si paga a caro prezzo un complesso d?inferiorità che non aiuta a crescere e che, sorprendentemente, ha contagiato pure chi fino all?altro ieri parlava di corsi nuovi, di Calabria, calabresità e di valorizzazione delle sue eccellenze.
Chiudo con un mio perenne cruccio, quello di soffrire nel vedere che, spesso, chi opera nella cultura anche con la partita iva sia visto esclusivamente come un imprenditore, con l? ?aggravante? del fine di lucro. Sarebbe come dire che i grandi chirurghi che lavorano in ospedali privati non siano bravi o capaci o che un medico che si fa pagare una visita sia quasi un ?ladro?. Non è così e non può essere la configurazione giuridico-fiscale, peraltro la più corretta, il parametro per dare un giudizio sulla qualità del lavoro anche in campo culturale. Essere pure imprenditori, semmai, è un valore aggiunto, per il rispetto delle leggi, delle norme, dell?etica e della moralità, per la possibilità di produrre di più con meno denaro pubblico grazie, spesso, alla partecipazione del rischio d?impresa. La cultura, oggi, oltre ad acculturare, può essere l?industria che non c?è, può dare l?occupazione che manca, può far tornare, o non partire, quei giovani che vogliono lavorare nei settori che amano e per i quali hanno attitudine. Operare nella cultura deve significare aprirsi al confronto su idee e progetti reali, superando vecchie logiche di privilegio, di caste e di ideologie, di formalismi burocratici o tecnicismi giuridici, sostenendo e premiando chi produce realmente e correttamente.